Gennaio 2011
SENEGAL, MALI, BURKINA FASO, TOGO
In viaggio con:
- Francesco Veneziani su Yamaha XT 600 monocilindrica,
- Andrea Maestri su BMW GS, e
- Roberto Parodi su BMW R80 G/S Paris-Dakar

Il percorso e le tappe:
1- 2-3- Dakar. Moto spedite tramite Messina Line in container da Genova. Nave in ritardo, pratiche doganali disastrose, nonostante abbiamo posticipato il volo, passeremo qui tre giorni di attesa e di stress alle prese con i doganieri e la burocrazia kafkiana che in Africa è purtroppo una costante per chi viaggia.
4 – Dakar – Tambacounda. Poche ore di viaggio solo per liberarci di Dakar. Anche se era sera, siamo partiti lo stesso perché volevamo mettere tra noi e quella città il più grande spazio possibile. Non ne potevamo più.
5 – Tambacounda – Frontiera Senegal/Mali – Kayes – Diama. Frontiera veloce. Paesaggio savana, con baobab e sterpaglie gialle. Vediamo scimmiette, asini e buche su buche per la strada. Verso sera Veneziani brucia l’impianto elettrico luci. Ci fermiamo ad aggiustarlo e oltre a non riuscirci, perdiamo tempo prezioso per arrivare a Bamako (previsto per le 22 circa). Ci fermeremo a Diama, all’Hotel Carta, dove potrete mandare i vostri peggiori nemici.
6 – Diama – Bamako – Mopti. Mille chilometri. Sveglia alle 5e mezza, partiti alle 6, niente da segnalare tranne che il Venezia arranca coraggiosamente con la sua regina del deserto che però su asfalto è una latrina…
7 – Mopti – Timbuctù. Ce l’abbiamo fatta! Dopo oltre 200 km di sterrato (ai quali si assommano circa 300 di stradone) siamo sul fiume Niger. Il festival au Desert (a Timbouctù) ci aspetta per l’ultima serata.
8 -Timbouctù. Giornata cuscinetto per turismo e riprenderci un po’.
9 – Timbouctù – Mopti – Bandiagara. Sterrato e avvicinamento alle terre Dogon. Ci sistemiamo alla Auberge Kansaye. Atmosfera ma camere di merda. Nella notte il Venezia cade preda di uno strano morbo.
10 – Bandiagara – Sangha – Banani. E ritorno. Giornata di piste sterrate e di falesia Dogon. Spettacolo naturale, peccato per l’Harmattan che soffia forte.
11 – Bandiagara – Bankass – Frontiera Mali-Burkina – Ouagadougu. Sterrato sterrato sterrato. E una cantata alla chitarra con i doganieri del Mali. Poi a Ouagadugu, ci concediamo Hotel di prima categoria, e frequentato da businessmen e donne di malaffare.
12 – Ouagadougu – frontiera Burkina-Togo, cittadina del togo non identificata dove dormiamo. In piena africa Subequatoriale, il caldo è pazzesco nonostante le collinette che ricordano i gorilla di montagna.
13 – Cittadina non identificata – Lomè. Sulla spiaggia spegniamo le moto. Il posto non è clamoroso, ma il viaggio è finito. Il Venezia deciderà di restarci altri 3 giorni….


Tanto per farvi entrare nell’atmosfera, ecco un po’ di foto.








































Dal 4 gennaio al 18 gennaio 2011.
Come al solito, troppa strada, troppe cose da vedere, e troppo poco tempo.
Perchè sempre così? Ma questa volta non è stata solo colpa nostra.
Ci si sono messe le Dogane del porto di Dakar, che dio le stramaledica.
Comunque ce l’abbiamo fatta: quasi 5000 km di cui forse un migliaio sterrati. Un challenge che ha visto la mia Bianchina R80, più che preparata ad affrontarlo.
Andrea, Francesco ed io ce l’abbiamo messa tutta e credo che il viaggio sia risultato comunque memorabile, nonostante una bella faticata e terra rossa dappertutto. Ma incominciamo… dalla fine.
Lomè, poche ore prima della partenza per l’Italia
Sono al bar del decrepito hotel sulla spiaggia di Lomè con una birra davanti.
Due seggiolini più in là, un vecchio libanese sta fumando un sigaro con espressione indecifrabile. E’ fisso al bancone da almeno due ore. Immobile.
Sono nervoso ed esco in strada. Sull’angolo della via mi faccio aprire un cocco da una bancarella. Bevo il liquido fresco e vitaminico e mangio la polpa bianca. Ci sono 41 gradi e il cielo e’ coperto da una foschia subtropicale.
Il nostro aereo parte stanotte per l’Italia. Guardo l’ora, sono appena le tre. Qualcosa mi dice che sara’ una lunga giornata. Oggi abbiamo piombato le moto nel container e insieme a loro, abbiamo sigillato anche la fine del nostro viaggio.
Come ogni fine, sento un po’ di tristezza.
E credo che anche la fatica, stavolta ci metta del suo. E’ stato pesante sia il chilometraggio (quasi 5 mila) che il ritmo con cui li abbiamo percorsi. Anzi, a volte “rincorsi”.
E’ stato un viaggio approssimato e in un certo senso, molto africano; qualcosa che sono certo, avrebbe messo alla prova la pazienza di molti viaggiatori esperti che continuano ad amare questo strano e affascinante paese. Per un motivo o per l’altro eravamo sempre tirati con i tempi. Stavolta è stata colpa delle formalita’ del maledetto porto di Dakar, che ci ha fatto perdere giorni, modificando l’intero equilibrio delle tappe e della strutture stessa del giro.
Ma fanculo: ce l’abbiamo fatta. Siamo arrivati in tempo a Timbouctou, partecipando alla magica notte del Festival Au Desert, tra musica, tuareg e stelle cadenti, tra il deserto e l’impassibile fiume Niger.
Parlando con il Maestri, alla fine di una tappa da mille chilometri tra Diama e Mopti, in Mali, lui mi ha detto, con la sua tipica tranquillità ” I motociclisti finiscono sempre per fare cose così: è un classico dell’andare in moto. Andarci davvero, dico…”. Ed aveva ragione: avevamo fatto 1000 km su strade assurde, in parte di notte, senza mangiare e senza fermarsi, ed in fondo non era altro che il nostro modo selvaggio di viaggiare e di affrontare le cose.
Roba da motociclisti.
Ed infatti eccoci ancora una volta ricoperti di terra rossa, con le mani sporche di olio e polvere bianca degli sterrati, che ci togliamo gli occhiali e sembriamo Kung Fu Panda, mentre beviamo a canna dalla bottiglia da un litro e mezzo di acqua che è calda che ci puoi fare gli spaghetti e ci sembra la più buona del mondo.
E’ il nostro modo di ribellarci alla sfiga, all’inconveniente, all’imprevisto, e lo facciamo grazie alla totale libertà che ci danno quei mezzi meravigliosi che sono le nostre moto. Perchè basta fermarsi un secondo, guardarci in faccia ad un incrocio in piena savana e dirci “Che dite, arriviamo fino a Timbuctù, STESERA?” e qualcuno risponde, “Ma si dai, proviamoci. E se non ce la facciamo, dormiamo nei sacchi a pelo dove capita”.
E si riparte, volando con una nuvola di polvere dietro alla ruota posteriore, liberi come più non potremmo essere, in una terra dove la libertà è tutto ciò che queste persone hanno: una cosa che allo stesso tempo, non ha prezzo e non vale nulla. Forse perchè non possono venderla per comprarsi il cibo, i vestiti o le medicine per la malaria.
E’ stato un grande viaggio, l’armonia tra noi si è creata subito, con le poche parole che servono tra gente che la pensa nello stesso modo su tante cose.
Abbiamo corso, ma abbiamo anche visto tantissime cose indimenticabili.
Abbiamo sfogliato i manoscritti millenari dei dotti maestri di Timbuctù, sentito l’odore inconfondibile del fiume Niger, sul quale pescatori su vecchie piroghe cacciano pesci gatto e “capitaine”. Abbiamo mangiato nei villaggi Dogon discendendone la spettacolare falesia, abbiamo attraversato le savane del Mali, Burkina, del Senegal e la vegetazione tropicale del Togo, sulla cui spiaggia siamo finiti ieri, spegnendo le moto lì dove finiva la strada e iniziava l’oceano atlantico che qui si chiama Golfo di Guinea, di fronte al quale ci siamo fermati tutti e tre un po’ disorientati come quando qualcosa finisce all’improvviso e tu non ti sei ancora abituato all’idea di non averla più.
Ma i viaggi in moto sono sempre cosi: fiamme che bruciano veloci e fatte di istanti unici che nessuna macchina fotografica potrà mai fissare, mentre sei li’ a smadonnare, attaccato al manubrio, con i tuoi amici a fianco e non aspetti altro che arrivi la sera per fermarti. E a volte si va avanti anche di notte. Ma poi in un attimo e’ gia’ l’ultimo giorno e tu non sei mai preparato, e vorresti riprovare tutto ancora un’altra volta.
Sull’immensa spiaggia di Lome’, piccole figurette nere e sottili si tuffano nelle onde dell’oceano. Sento grida in lontananza. Sono loro o i gabbiani?
Dietro l’hotel, tra le viuzze del mercato, svetta un campanile portoghese o spagnolo. Anche lui sembra lottare con il caldo e gli scrosci improvvisi di pioggia tropicale che gli hanno lasciato segni indelebili. Sembra il simbolo della decadenza di quest’africa, a meta’ tra il passato coloniale e un futuro che non arriva ancora.
Un lungo molo si protende verso il mare, ma e’ incompleto e il suo fantasma e’ li che ci guarda, inutile e ingombrante. Questa notte inizieremo un lungo viaggio di ritorno in aereo ma saremo solo in due: il Veneziani ci ha salutato dal taxi che lo portava verso gli ultimi due giorni di vacanza che passera’ a qualche chilometro da qui, in un luogo meno caotico verso il Benin.
E’ andata ragazzi, penso mentre insieme al Maestri guardo il mare con un umore indefinibile.
Poi un bambinetto nero e lucido d’acqua, salta fuori dalle onde come un pesciolino, e ci corre davanti con un sorriso spettacolare. Si gira e si rituffa in acqua col culetto nudo e beffardo.
Finisco la mia birra, che e’ gia’ diventata tiepida.
A presto Africa e, come qui scrivono dappertutto, “God will provide”….
ECCO IL DIARIO DEL VIAGGIO: UNA SERIE DI SMS CHE HO INVIATO AL DEPIA, PIù O MENO OGNI GIORNO, NEI QUALI CERCAVO DI FISSARE EMOZIONI E SENSAZIONI, PIù CHE ALTRO.
4 gennaio 2011
Dakar
Dalla terrazza dell’hotel Lagon, a dakar, che si protende sull’atlantico, nonostante una Corona gelata e un tramonto da otto e mezzo, sono incazzato nero. Arrivati ieri alle 3 di notte e presentati precisi al porto alle 9 del mattino stamane, siamo stati trascinati nel magma burocratico della dogana senegalese e dall incompetenza di un paio di imbecilli che ci dovevano aiutare.
Dopo otto ore a 40 gradi, ci arrendiamo e rientriamo mestamente in hotel. Abbiamo trovato il nostro container che ci guardava da una montagna arancione di ferro. Sembrava li a portata di mano.
Ci riproviamo domani mattina. Nonostante tanta africa e tanti viaggi, non mi sono mai sentito tanto europeo come ora.
E forse e’ per questo che sono cosi incazzato.
Parole, ok: ma il punto e’ che non riesco a subire gli eventi con l’atarassia necessaria, l’indolenza e il fatalismo dei neri.
Specie quando di mezzo ci va il nostro viaggio.
So che dovrei essere calmo e freddo, diventare un po’ piu’ africano anch’io, ma non ci riesco, per lo meno adesso, che ho ancora la nebbia lombarda nelle ossa.
Dammi tempo, Africa, non e’ giusto mettermi subito alla prova il primo giorno! Il Veneziani sembra meno preoccupato ma oggi stava per metter le mani addosso a uno dei nostri “consulenti”.
Andrea Maestri (detto il Maggiore) riequilibra il terzetto, con aplomb brianzolo-inglese.
Vabbe’, fanculo tutto.
Stasera cena di pesce e vino bianco: Dakar dovra’ farsi perdonare.
4 gennaio 2011
Bad News from Dakar
Se non avete ancora visto l’inferno, potete fare un salto agli uffici della dogana del porto di dakar.
Kafka era un bambino al confronto. E non parlo dell’atmosfera tropicale, del sudore, delle code dei rumori corporali, della calca.
No.
Parlo dell’inferno psicologico, quello a cui vengono esposti i dannati, indotti subdolamente a sperare in una soluzione e poi crudelmente regrediti ogni volta alla partenza, dalla mancanza di un foglio, un timbro, un permesso.
E l’inferno continua. Se ne esco vivo mi faccio una maglietta;
“I survived Dakar Port customs”
(….tieni duro Parods ….tieni duro….)
5 gennaio 2011
Finalmente in moto
Sfrecciamo liberi attraverso la savana del senegal, spalle al tramonto, correndo verso Est. Il sole e’ basso e i colori gialli e arancio delineano i profili dei baobab.
Il Veneziani e’ davanti a me con il suo XT600 yamaha monocilindrico, che ha il rombo di una harley. Vecchia e cattiva, oggi e’ partita con un colpo di kick start nel porto, con un rombo spettacolare. Quando le moto sono uscite dal container e’ stata una vera liberazione.
Sfrecciamo, evitando asini e buchi enormi sulla strada che porta verso il Mali. Un la becca in pieno il venezia, stortando il cerchio della ruota posteriore.
Continuerà per altri 5000 km senza battere ciglio. Se tutto va bene per domani potremmo tentare il confine con il Mali, e ovviamente con documenti zoppicanti incompleti. Maestri fa strada con l’immensa BMW, noi dietro.
A mezzanotte arriviamo a Tambacunda, 500 km circa da Dakar e quasi in mezzo al Senegal. Tambacounda: basterebbe gia’ il nome per meritare una notte qui, vero?
Un rasta con i dreadlocks e musica reggae, ci accoglie in reception.
Le moto si riposano fuori dal tucul dove ci hanno aggiunto un paio di materassi per terra.
Apriamo un bottiglia di bianco che il Veneziani ha portato dall’italia.
In cielo ci sono molte più stelle di quanto abbia mai visto.
E non e’ colpa del prosecco.
6 gennaio 2011
Polvere rossa
Siamo qui seduti in un baretto a catapecchia sul fiume che segna il confine tra senegal e mali. C’è un bel venticello ma appena fuori dalla tettoia e’ un forno. Abbiamo fatto 600 km e sono ricoperto di polvere rossa della pista. Un ragazzino si sta occupando delle formalità mentre osservo i miei amici viaggiatori. Il ferro di Veneziani dà già problemi e lui smanetta con cacciavite e pinze. E’ un tipo destrutturato; uno come lui e’ fondamentale nei viaggi. Andrea Maestri e’ unico anch’esso. Calmo, preciso, un baricentro di buon senso e stoffa lombarda a cui già non possiamo più fare a meno.
Li guardo mentre scrivo.
Il mio viaggio sono soprattutto loro: quelli grazie a cui sono qui.
Quelli con cui ci si smazza problemi e soluzioni ogni giorno.
Bevo un sorso di acqua fresca, appena presa in un baracchino su questa remota dogana.
E’ l’una e un paio di ragazzini stanno ricevendo biro e cadeaux dal Venezia che se le e’ portate dall’italia.
Grazie ragazzi, penso tra me.
Grossi camion, storti e impolverati all’inverosimile, se ne stanno fermi sul ciglio della strada: sembra non debbano ripartire mai.
E nessuno se ne preoccupa.
15.00
Befana d’africa
Ok, sono le tre del pomeriggio, siamo a Kayes, in Mali e abbiamo 650 km da percorrere per arrivare a Bamako. La mia BMW R80 G/S va che e’ una favola, la Xt 600 del veneziani ha un cerchione mezzo storto, gocce di sangue sul serbatoio e il clacson bloccato. Quella del Maestri, tutto ok. Ho in pancia due litri d’acqua e una arancia.
Africa saluta Italia, per il momento passo e chiudo.
6 gennaio 2011
Giapponesi…..
Africa chiama italia. 6 gennaio, a Diama. L’impianto luci del precario XT 600 Yamaha del Veneziani ha reso l’anima. E il problema e’ che siamo bloccati al buio in una localita’ allucinante nella savana del Mali. Forse riusciamo a dormire in un ostello di merda, ma qualcosa ci dice che sono meglio i sacchi a pelo.
L’idea era farsi altri 300 km e arrivare a Bamako, ma ci penseremo domani. Il Venezia smadonna sull impianto, io e Maestri mangiucchiamo improbabili spaghetti al montone che ci vengono serviti direttamente su un vassoio di plastica, senza piatti. Nessuno si formalizza e mangiamo questo delirio di pasta con tre forchette, in silenzio sotto una lampadina al neon tra le moto, mentre la temperatura della notte inizia a scendere. Mi sovviene che l’ultimo pasto e’ stato un panino all’uovo sodo.
Ieri mattina.
7 gennaio 2011
Africa rovente
Siamo da qualche parte tra Bamako e Mopti. 45 gradi. Solleone. Andatura costante tranne il Veneziani che si perde indietro e ci rallenta un po. Ma ci sta.
E’ piuttosto dura, sveglia stamattina alle 6 e via andare.
L’africa e’ rovente e sulla nostra sinistra ogni tanto scorre il fiume Niger. Mi ci vorrei tuffare, moto compresa. Ma adesso vado, dobbiamo fare ancora 500 km entro sera.
Alla sera
Mopti
Cazzo, mille chilometri oggi.
Abbiamo attraversato il Mali da ovest e poi verso nord partendo alle 6. L’alba era tenera e grigia sulla savana, poi il caldo ha preso il sopravvento.
La strada serpeggiava e sembrava anche lei cercare l’ombra dei baobab.
Proprio come noi.
Il problema è stato che dopo 11 ore è sceso il buio e col Veneziani senza luci abbiamo fatto 200 km da incubo con andatura “a sandwich” cioè lui in mezzo alle nostre 2 moto con camion e corriere che ci sfioravano nel buio della notte.
Credo sia stato uno dei tratti dove ho rischiato di più la vita. In africa di notte non si vede davvero un cazzo e queste strade non hanno nulla a che vedere con quelle che si possono trovare in luoghi estremamente civili come Marocco, Tunisia o Algeria.
Fa davvero buio e questa volta non siamo solo noi europei a non vedere.
Domani Timbuctu. Inshallah…
8 gennaio 2011
Finalmente Timbuctu…
Abbiamo attraversato il fiume Niger. Cazzo come è grosso: immaginatevi il Mississippi, ma col deserto attorno.
Il Festival Au Desert è alla sua serata finale e noi ce l’abbiamo fatta, alla faccia delle lungaggini del porto di Dakar.
Le moto si sono beccate 200 km di fuoristrada e la R 80 perde olio da una forcella e ha perso una freccia, ma siamo qui.
La musica è ritmata e lisergica, migliaia di persone seguono il ritmo con i fianchi, le mani, le braccia. E’ uno spettacolo. Grazie al Pass Stampa, salto tra palco e transenne scattando foto alla gente rapita dal ritmo. Ci sono anche europei e qualche canadese e americano. Rincontriamo le amiche di Dakar, che sono qui dall’altro ieri. Sentiremo con loro il concerto coricati su una duna, fino a notte fonda.
Sfiniti per il viaggio ci buttiamo nella nostra tenda berbera bianca, beviamo tè e mangiamo un cous cous e montone.
Tutto attorno la festa continuerà fino al mattino, la gente ascolta la musica, balla e canta sulle dune di sabbia impalpabile che abbiamo raggiunto con le nostre moto.
La musica è affascinante: è il blues del niger, ragazzi.
Per un attimo salta la luce.
E ci accorgiamo che in cielo non potrebbero esserci più stelle di così.
9 gennaio 2011
Timbuctu e’ sabbia.
Sulle strade, nel pane, sulle faccine dei bambini.
C’e’ finissima sabbia anche sulle pagine di vecchi manoscritti del 1300 e sui muri di fango delle vecchie moschee.
Sabbia morbida, che non sporca, ma che ti si attacca un pò. Come se non ti volesse lasciare andare via. Forse perchè si è già affezionata a noi.
Mentre stringevo la vite da 36 dello stelo sinistro della forcella e facevo un rabbocco all’olio motore,vedevo sabbia in ogni angolo della moto. Insieme alla terra rossa della regione del sud del fiume Niger, percorsa ieri.
Ho rabberciato col nastro americano il supporto della freccia spaccata dal tole-ondulee e ho fatto un pò di manutenzione.
Qualcosa mi dice che quella sabbia bianca resterà dentro di me ancora per un bel po’…
10 gennaio 2011
Sul fiume niger….
Abbiamo salutato Timbuctù, dopo due giorni di visite e di riposo e siamo di nuovo sul traghetto sul fiume.
Abbiamo aspettato un’ora che si riempisse.
Le nostre moto se ne stanno in compagnia di mucche e galline asini e un paio di pick up e un 4×4 tedesco. Ho comprato i bon bon per i bambini e distribuirli è stato un delirio: ho quasi provocato un tafferuglio e i bambini si picchiavano. Non è stato un bello spettacolo. Anche gli adulti urlano per avere biro, bon bon e cadeaux. Qui siamo davvero tra gli ultimi degli ultimi. I nostri fratelli più miseri.
Vorrei dare qualcosa a tutti. Ma i più piccoli ci vanno sempre di mezzo.
Una bimbetta si nasconde dietro la mia moto e quando tutto si calma, mi sussurra “cadeaux”… c’e’ un dolcetto e un soldino anche per lei. L’ultimo…
Sull’altra riva ci aspettano 250 km di fuori strada. Che ora però conosciamo bene.
Ore 15
Per sapere cosa vuol dire fare 200 km di pista nel sahel del Mali, bisogna farseli. Non c’è modo di raccontarlo.
Qui finalmente il Venezia con il suo accrocchio XT600 (a cui è affezionatissimo, e che io e il Maestri, invece, guardiamo con diffidenza), sta dando il massimo. La sua moto è leggera e veloce, il motore e il telaio sono perfetti per la sabbia e il fuori pista. Praticamente si sono invertiti gli ruoli. Il Venezia ci passa dritto sulle pedane, mentre il Maestri arranca con l’immenso GS, che in un paio di volte si appoggerà in terra nella sabbia, come un animale esausto dalla fatica. La mia R80 ce la fa abbastanza bene ma non me la sento ti tirare alle stesse velocità del Venezia, mantenendomi sullo sterrato sugli 80 / 90 km/h. Lungo la pista incontriamo villaggi persi nel nulla, dove bambini si spaventano vedendoci estrarre le grosse macchine fotografiche.
Tra qualche chilometro riprenderà l’asfalto. Inshallah…
La moto perde olio da uno stelo forcella e ha vari ammenicoli attacati col nastro americano.
A parte questo, va alla grande. E io pure….
Ore 19.00
Siamo a meta’ viaggio.
E’ sera e siamo arrivati a Bandiagara, nelle terre dei Dogon. Abbiamo conosciuto Lorenzo e Micaela, due ragazzi italiani che vivranno qui per un po’ di mesi. Lorenzo è quasi un local, e ha casa qui a Bandiagara. Li abbiamo incontrati nel bar dell’Hotel Kansay, un piccolo e magico luogo di incontri gestito – ancora una volta – da un rasta, che mette musica piacevolissima e serve birre gelate. Saremo ospiti a cena da loro, spaghetti alla bottarga: incredibile!!
Bandiagara, nel pieno territorio Dogon.
L’Hotel Kansay sarà anche pieno di sapore avventuroso, ma dormiamo in una camera che sembra la cella di rigore di un fortino della legione straniera.
Domani visiteremo questi villaggi antichissimi sulla falesia rocciosa che da sulla savana
Con 500 km nelle braccia, passo e chiudo per stasera ma prima di addormentarmi , se guardo indietro ho una serie di flash.
-Il rumore dello scarico dell XT del veneziani,
-le palle che ci raccontavano a ripetizione i “transitarie” al porto di Dakar,
-le gnocche senegalesi,
-il ragu di montone in Mali,
-il battello passeggeri sul fiume Niger,
-schizzi di olio nero sul serbatoio dell R80,
-il culo immenso del GS di Maestri,
-le facce rapite del pubblico al Festival Au Desert a Timbuctù,
-il freddo dei trasferimenti notturni,
-lo spettacolo del deserto e della savana,
-il rumore tranquillo della mia moto,
-il rosso della terra africana degli sterrati,
-il Blackberry cui affido tutto quello che ho in mente,
-le facce dei bambini,
-la gentilezza delle persone,
-i miei due compagni di viaggio che mi aspettano la sera, con una birra gelata.
-Un po’ di nostalgia di casa, ma solo un po’…
11 gennaio 2011
Sangha
Oggi lungo una pista di 50 km abbiamo raggiunto la falesia dei Dogon: 300 metri a strapiombo sulla savana.
Caldo e terra rossa, bambini che salutano, donne che pestano mortai, artigiani che lavorano il legno. La pista che zig zaga tra i baobab. L’africa profonda e immutata dalla notte dei tempi.
E nessuno che sembra preoccuparsi della cosa che da noi e’ la piu’ preziosa: il tempo che passa…
12 gennaio 2011
Ouagadougou.
L’harmattan, il vento del sahel che spira da est, ha fischiato tutto il giorno sulla pista che dal Mali porta in Burkina Faso. Un piattone che la R80 attraversa senza problemi in una savana arroventata dal sole. Grazie al vento, la polvere alzata dal Veneziani (che adesso è pimpante nelle prime posizioni e ci ricopre di polvere e terra), è spostata via, ma non basta e bisogna allungare la distanza per non cadere nei buchi della starada evitat da chi ci sta davanti.
Ogni tanto devo riassicurare il bagaglio legato sul portapacchi (quello di serie), perchè buchi e salti mi fanno volar via tutto l’ambaradam. La Belstaff è rossa di terra e praticamente cammina da sola. L’off road incomincia a rompermi le palle oltre che le braccia. La schiena e il culo resistono bene, ma tutti aneliamo a un po’ di asfalto.
Procediamo a tutta birra verso il Burkina Faso e lasciamo i ricordi del Mali, Timbuctu, il paese dei Dogon e la incredibile falesia di roccia rossa, per scivolare verso sud.
Alla dogana dispersa nel nulla, un militare mi presta la sua chitarra e suono Jimi Hendrix, Chuck Berry e Johnny Guitar Watson.
Loro seguono il ritmo battendo le mani. “Sei forte” mi dicono.
Il mio plettro resta nelle mani di quel soldato. Insieme a un mucchio di altre incredibili sensazioni.
13 gennaio 2011
Da qualche parte in Togo.
Prima di tutto una grande notizia dal Depia: e’ maschio.
Congratulazioni dall’africa dal Venezia, Andrea e naturalmente da me.
La savana lascia spazio alla vegetazione più verde del Togo. Ma le moto non perdono un colpo. Sono rosse di terra africana.
Qui non si mangia quasi un cazzo e abbiamo tutti perso un botto di chili. In realta’ l’impressione e’ che neanche gli africani mangiano quindi anche noi ci adeguiamo.
Io comunque non sono ancora riuscito ad abituarmi ai bambini.
Quelli messi davvero male, gli ultimi tra gli ultimi. Qualche soldo, un regalino, non bastano e lo so.
E allora salgo in moto e accelero, scappo via, cercando di non pensare.
Fino al prossimo villaggio.
14 gennaio 2011
Togo, verso Lomè.
Sull’ unica strada che percorre questo paese dove e’ nato il VooDoo, sento zaffate di scarichi di camion, odore di legna bruciata, buche da caderci dentro, donne che camminano con fascine di legna in testa, bambini che vanno a scuola, chiese battiste vicino a piccole moschee. Viaggiamo verso Lome’, col Veneziani che resta sempre indietro sull’orgogliosa ma lenta XT600 e il fresco della partenza alle 7 del mattino, nella foresta dell’africa subtropicale.
Si sente nell’aria che questa e’ davvero l’africa più profonda, quella più lontana da noi.
Mi sento straniero come più non potrei.
Ancora una volta, le nostre moto sono la nostra casa.
Donne d’africa.
Le donne nere in africa sono belle, bellissime.
E ho capito perche’.
E’ perche la loro bellezza è antica e diversa, ed e’ l’unica possibile qui. Il colore della loro pelle si fonde con i colori della terra, del tramonto, del deserto e della savana.
Non ha paura del sole, della polvere del caldo. Non suda, non diventa lucida. I loro occhi e i loro denti brillano nei sorrisi che talvolta regalano al viaggiatore straniero.
Sono bellissime, aggraziate quando si aggiustano con le mani il carico che portano in testa o legano sulla schiena il loro bambino.
Sono la vera bellezza dell’africa.
Un luogo dove la pelle bianca e’ fuori posto.
Roberto
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