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Milano – Dakar 2007  

 



Ogni nome un uomo ed ogni uomo e’ solo quello che
scoprirà inseguendo le distanze dentro se
Quante deviazioni quali direzioni e quali no?
prima di restare in equilibrio per un po’
Sogno un viaggio morbido, dentro al mio spirito
e vado via, vado via,
mi vida cosi’ sia
ROTOLANDO VERSO SUD, Negrita, 2005





 

Milano – Dakar
(da Motociclismo, maggio 2007)

Un messaggio su un forum fa scattare un sogno nascosto nel profondo dell’anima di un motociclista milanese: raggiungere Dakar con la sua vecchia Harley-Davidson.
E possibilmente anche tornare a casa per raccontarlo.
Dieci giorni attaccato al manubrio, per attraversare il deserto sulla Transahariana occidentale, senza troppa tecnologia ma con buon senso d’altri tempi e incrollabile fiducia nei propri mezzi. La storia di un lungo viaggio fatto di silenzi e spazi sconfinati attraverso una zona sconosciuta dell’africa, dove le uniche attrattive sono i tramonti infuocati, il suono del vento sulle dune e una lunga strada dritta che punta sempre a sud.

Report
Una mattina di maggio dell’anno scorso, surfando su un forum di enduristi inglesi trovo la notizia che aspettavo da anni: la tratta che unisce Nouadhibou, a nord della Mauritania, con la capitale Nouakchott, è stata finalmente terminata. Cioè significa che la Transahariana Occidentale, la lunga via di comunicazione che collega Dakar con l’Europa, è percorribile su asfalto (o quasi, come avremo modo di constatare a nostre spese).
La tentazione di un raid Milano-Dakar con la mia Harley-Davidson (una vecchia FLHR Road King ormai irriconoscibile) era molto forte e mentre studiavo sempre più attentamente lo sconfinato giallo-sahara della mappa Michelin, nella mia mente si materializzava sempre più chiara la famosa frase di Frankenstein Junior: -Si … può …. faaare!!-.
Dieci mesi dopo, due moto inequivocabilmente stradali accendevano i motori a Porta Ticinese e puntavano le forcelle verso l’Africa: da qualche parte, 5700 km più a sud, c’era Dakar e in dieci giorni contavamo di arrivarci.
In realtà, il viaggio avrebbe richiesto almeno il doppio del tempo, ma se avessimo voluto fare qualcosa di sensato probabilmente non avremmo neppure usato due vecchie Harley-Davidson.
Tuttavia il gusto della sfida e la fiducia nell’affidabilità delle nostre moto, ancora una volta mi ha spinto a provarci.
Questo è un po’ lo stile che caratterizza i Threepercenters, un gruppo di motociclisti vecchio stile che, con belstaff e casco jet affrontano l’Africa e l’Asia senza GPS ma con la tenacia e l’affidabilità di vecchi bicilindrici americani.
Tecnicamente le difficoltà del viaggio non sono eccessive. Fino a qualche anno fa, la Mauritania costituiva un problema visto che era necessario attraversare il Banc-d’Arguin, un lungo tratto di oltre 450 km di piste incerte e lunghi tratti sulla battigia, bellissimi da un punto di vista naturalistico, ma estremamente impegnativi. Oggi, circa 500 km d’asfalto nuovissimo consentono il trasferimento attraverso un meraviglioso deserto di dune sfumate di giallo e rosa.
L’unico problema resta il rifornimento di benzina, visto che dal Western Sahara in giù, i mezzi vanno a gasolio: un paio di taniche supplementari sono raccomandate per più di una tratta. Gran parte di questo lungo viaggio si svolge sulla strada litoranea che corre lungo l’oceano Atlantico (che contribuisce a rinfrescare e inumidire il clima) ma il Sahara si deve attraversare per molte centinaia di chilometri per cui è raccomandabile grande prudenza.
La Transahariana occidentale è una delle tre possibilità che consentono di attraversare il Sahara, insieme a quella centrale in Algeria verso il Mali via Tamanrasset e quella orientale dall’Egitto verso il Sudan.
Ha sempre risentito degli attriti tra le nazioni che attraversa e ancora oggi è uno dei tratti con la maggiore quantità di mine.
Per questo motivo non è mai stata troppo sviluppata, ma specialmente perchè la possibilità di utilizzare la nave è da sempre stata considerata l’opzione più comoda. Ecco perchè fino ad oggi i pochi viaggiatori occidentali che vi si avventuravano erano pochi camionisti ed i famosi -peugeottari-, incoscienti e avventurieri che tentavano l’attraversamento del Sahara per vendere l’auto su cui viaggiavano. Molte sono le carcasse che si incontrano sul ciglio della strada, e probabilmente ognuna di esse avrebbe una storia da raccontare.
Come si è già capito, l’attrattiva di questo viaggio non è nel turismo tradizionale ma nel fascino dei trasferimenti: è un viaggio di meditazione, di profumi e di grandi spazi e silenzi.
Il vero spettacolo lo danno le impressionanti viste dell’oceano dalle scogliere del Marocco, le lingue di sabbia che si impossessano della strada nel Sahara Occidentale, le dune giganti della Mauritania e il bush senegalese che a poco a poco mette in fuga il deserto e prelude all’africa nera.
Come Keruac amava dire, non so dove andare ma so che devo partire, ed è forse questo lo spirito giusto per mettersi per strada. In questo interminabile viaggio si crea un legame indissolubile tra te e la tua moto, che finisci davvero per considerare l’unico elemento che ti lega alla civiltà e che ti consente di sfidare questi spazi vastissimi: un po’ come i Tuareg e i propri cammelli.
E sono proprio gli uomini blu che mi hanno lasciato uno dei ricordi più belli del viaggio, quando il collettore della marmitta si è spezzato per le vibrazioni. Non è il massimo quando questo ti capita nel mezzo del Sahara e il meglio che hai potuto fare è avvolgere sul collettore una vecchia lattina di birra. Ma un silenzioso e abile tuareg ha fermato la sua Land Rover (i cammelli del nuovo millennio) e mi ha dato una mano, non accettando nessuna mancia – perchè qui è il Sahara, e l’aiuto ai viaggiatori non si paga: se fosse capitato a me, tu mi avresti aiutato, no?-.
E’ un viaggio di paesaggi monumentali, non di bellezze architettoniche, anche perchè la costa marocchina è la sola ad essere popolata: Tangeri, Rabat, Casablanca, El Jadida meriterebbero più tempo, ma il nostro raid è focalizzato sul ‘viaggio’ e non sul turismo locale.
A sud di Agadir i luoghi abitati quasi scompaiono ma alcuni nascondono tuttavia un fascino segreto: il paesino di Tarfaya, sul confine non segnato tra Marocco e Western Sahara, un tempo era un vecchio campo base del volo postale Dakar-Tulouse, dove un certo pilota di biplani chiamato Antoine de St Exupery, visse per mesi e scrisse -Southern Mail-, meno famoso del Piccolo Principe ma ugualmente romantico. Altri sono davvero solo un punto sulla mappa, come El Argoub, situato sul Tropico del Cancro e nessuno degli abitanti ne era al corrente.
Le città del Western Sahara, Laayoune e Dakhla (la vecchia Villa Cisneros, capitale del Sahara Espanol) sono prive di interesse e piene di soldati. La storia di questa grande area è travagliata e parla prima spagnolo poi marocchino. Oggi i problemi sono lontani dall’essere risolti e ciò che resta è una delle zone più minate del mondo.
Ce ne accorgiamo in prima persona sul confine tra Western Sahara e Mauritania, dove per diversi chilometri la strada finisce e bisogna attraversare una zona minata e priva di segnalazioni. Questa pericolosa terra di nessuno (che i locali chiamano Kandahar per i loschi traffici che vi avvengono e la mancanza di giurisdizione), è uno dei momenti critici del viaggio: occorre rimanere sulle piste segnate, facendo attenzione a non insabbiarsi ma specialmente a non uscire dalle tracce.
Vediamo una Nissan completamente sventrata che, ci dicono, è saltata tre giorni prima su una mina per una manovra troppo disinvolta: il deserto non perdona, ed è quello che abbiamo sempre avuto bene in mente, anche se questo viaggio affrontato con la dovuta prudenza, è senz’altro alla portata di motociclisti mediamente esperti.
Fino a qualche anno fa il tratto da Dahkla a Nouadibou era percorribile solo in convoglio, con la scorta, una volta alla settimana a causa delle mine e del rischio di assalti. Oggi la situazione è migliorata grazie alla nuova strada. La Mauritania ha un deserto più morbido e setoso della dura hammada marocchina. Le dune sono più gialle e tra di esse occhieggiano poverissime capanne dove ci si può approvvigionare di bibite (caldissime) e luminosi sorrisi di bambini.
Purtroppo dietro quei sorrisi si nasconde una piaga tutt’altro che guarita, la schiavitù, che è ancor oggi esistente in tutta il paese, ad esclusione della capitale e di pochi altri centri urbani.
Dopo aver attraversato l’interminabile Mauritania (a Nouakchott è sufficiente una notte, magari in un buon albergo internazionale) giungiamo a Rosso, cittadina di frontiera famosa per l’avidità dei doganieri.
Per fortuna noi abbiamo un altro programma e imbocchiamo una pista sterrata che costeggia verso ovest il fiume Senegal. E’ difficile perdersi e l’unico rischio è il fango ma la stagione delle piogge è ancora lontana, e ci godiamo cento chilometri memorabili, tra facoceri che ci attraversano la strada, baobab e panorami indimenticabili in un parco ornitologico che ci porta fino a Diama, dove facciamo dogana per entrare in Senegal. Da qui in avanti sarà tutto più facile, anche se la mia moto ha la batteria a terra, è saltata la centralina delle luci e ovviamente ha la marmitta tenuta su dal filo di ferro del Tuareg.
Tutto ok, comunque: siamo in africa e tutto si può sempre riparare. Dormiamo a Saint Louis, la vecchia capitale del Senegal coloniale, tra profumi salmastri e pale di ventilatori anni trenta.
Ci accoglie la padrona dell’Hotel De La Poste che ci fa sentire per una sera autentici viaggiatori d’altri tempi. Il tempo di assaporare la cucina locale e di farci ricamare una bandiera del Senegal da un sarto di strada, e via verso la nostra ultima tappa.
Molestati incessantemente da poliziotti corrotti che chiedono cadeaux per i motivi più assurdi, giungiamo a Dakar, megalopoli capitale del Senegal.
La città è caotica ma nasconde piccole perle come la bella isola della Goreè con le sue vestigia dell’antica tratta degli schiavi, alcuni interessanti mercati di artigianato e il lago Rosa, così chiamato per l’alta percentuale di sali nelle sue acque, punto di arrivo della Parigi-Dakar.
Mentre ci rilassiamo in piscina facciamo un bilancio del nostro raid: una folle corsa puntando sempre a sud, con il sole in fronte e il paesaggio che passa dalla Francia al verde del Marocco e poi via via sempre più piatto, più caldo, più desolato; sempre più deserto per poi ridiventare savana, con i baobab e le scimmie, e finalmente di nuovo verde con i grandi fiumi e le foreste dell’Africa Nera.
Un viaggio che, nei lunghi trasferimenti dell’immensità del deserto, ci ha lasciato il tempo di riflettere e pensare e ci ha dato l’opportunità di riconoscere nella gente quei ritmi e quella dignità che nella civiltà occidentale sembrano ormai perduti per sempre.

SCHEDA
Km Totali da Milano a Dakar: 5600 circa (2100 in Europa + 3500 in Africa)
Giorni totali impiegati: 9
Media giornaliera: circa 600 km al giorno
Sterrati, piste: 5 km tra Sahara Occidentale e Mauritania (con campo minato), 97 Km tra Mauritania e Senegal
Condizioni asfalto: buone su tutto il percorso, tranne i pezzi sopracitati
Carburante: dal sud del Marocco in giù, solo benzina rossa. In Mauritania, tratto di circa 500 km con alto rischio di non trovare neanche quella
Rientro: noi in aereo, moto via container (Messina Spedizioni, Dakar)
Costi: circa 500/600 Euro di spese vive per benzina, mangiare e dormire da Milano a Dakar tutto compreso (stando larghi), 250 Euro per il traghetto. Escluse spese di aereo rientro e spedizione moto da Dakar.

Ecco subito un paio di filmati, tanto per farvi entrare nell’atmosfera del viaggio.
Questo qui sotto è l’attraversamento del campo minato che segna il confine tra il Western Sahara e la Mauritania.
PS. Occhio che nel video dico una cazzata: non è la dogana marocchina, ma quella mauritana.

Quest’altro breve spezzone vi dà l’idea del paesaggio a sud del Tropico del Cancro: 600 km al giorno. Tutti i giorni. Così, con il sole a picco (andando verso sud)
Ragazzi, ci tornerei domani

Qui sotto ragazzi, un momento di pausa tra le dune del western Sahara. Dopo aver percorso circa 300 km di spiaggia. In fondo sulla destra si vede il mare…

E concludo con questo brevissimo pezzo filmato sulla pista di Diama, esattamente tra la Mauritania e il Senegal, sul fiume omonimo.
100 km di sterrato dopo il quale la mia fedele FLHR stava per rendere l’anima. Poi fortunatamente era solo la batteria morta.
Ci vuole altro…

 

IL DIARIO DI VIAGGIO

9 marzo 2007, venerdì.

Milano – Sete (Francia) (650 km)
Si parte.
Mattina presto, aria fresca di marzo, ci vediamo in piazza XXIV maggio. Foto di rito e via. La prima botta di 650 km vola tra Milano e Sete, cittadina francese poco prima di Barcellona. La tirata della Spagna, questa volta abbiamo deciso di farcela in traghetto. Arriveremo più freschi in Africa, dove con la mente siamo già da un bel pezzo.

10 marzo 2007, Sabato.
Sulla nave Faantasia
Sono steso in cuccetta, le orecchie cullate da un sommesso brontolare degli immensi cilindri che in modo maestosamente flemmatico spingono verso l’africa questa vecchia nave costruita tra le nevi dell’Estonia.
E’ il secondo giorno di questo lungo viaggio ma la lunga tirata di 650 km da Milano a Sete e’ gia dimenticata. L’ozio a bordo della nave e’ negativo per il mio morale e in questo momento ho una lancinante voglia di casa. Circa venti metri sotto di me, la mia moto e’ saldamente fissata al pavimento di acciaio della stiva, con la stessa cinghia che la lega al Dyna di andrea. Il loro destino le accomuna indissolubilmente, cosa che vale anche per noi che in questo momento ce ne stiamo stesi in cabina immersi nei nostri pensieri. Aspetto che il sonno abbia il sopravvento su quel pizzico di ansia che mi attende puntuale ogni sera quando spengo la luce e i miei pensieri iniziano a schizzare qua e la nella testa, come cavalli impazziti prima che riesca ad imbrigliarli e a portarli nella direzione giusta.
Ok, ok, tutto andra’ bene, abbiamo le nostre due moto pronte e in ordine, il sole del Marocco che non aspetta altro che levarsi domattina, mentre di fronte a noi si srotola un’infinita strada che punta a sud. E porta a Dakar. 11 marzo 2007, domenica,
Tangeri-El Jadida (Marocco) (450 km)
E’ africa finalmente! Dopo 40 interminabili ore la nostra vecchia nave estone ha aperto il portellone e ne sono scattate fuori due Harley filanti e aggressive, nonostante il consistente equipaggiamento da viaggio intercontinentale Tangeri ci accoglie con la tranquilla indifferenza di una città che sembra abbia rinunciato a correre allo stesso ritmo di quelle giusto al di la dello stretto. La attraversiamo con il piacere di chi pregusta un lungo viaggio in una terra meravigliosa.
I poliziotti sorridenti che salutano mentre passiamo, i bambini, che sgranano gli occhi, quel profumo strano che c’e’ nell’aria.
Attraversiamo l’interminabile parte settentrionale della costa marocchina, verde e florida in questo marzo assolato. Valichiamo colline che ricordano le black hills o il Wyoming: le nostre Harley sembrano accorgersene e marciano ancora meglio che nel lungo tratto appena fatto in francia. Poi in un attimo e’ subito buio. La temperatura crolla e ci fermiamo per metterci un golf supplementare.
Un the verde e via di nuovo: Rabat, Kenitra, Casablanca. La nostra tappa e’ El Jadida, una bella citta’ sull’atlantico che meriterebbe piu’ tempo. Ma abbiamo ancora troppi chilometri, troppa strada, troppe latitudini da attraversare. Due moto, due uomini che viaggiano sotto una notte africana. La strada e’ buia e non troppo frequentata. La strada e’ dritta e in leggera pendenza, in lontananza si vede la costa atlantica con le luci di El Jadida. Penso ad una grigliata di pesce e a una doccia calda.
Per un attimo alzo lo sguardo dalla strada e mi accorgo di essere sotto ad un cielo profondissimo e pieno di stelle.
Una e’ la tua, Fiammetta!

12 marzo, lunedi,

El Jadida-Ifni, (Marocco) (600 km)
Dopo una tirata di dieci ore in moto si fa fatica a connettere e a ricordare tutto, specie se si sono percorsi tratti veramente indimenticabili, ma andiamo con ordine. Da El Jadida abbiamo scelto la litoranea che ci ha portato ad Essauira, dopo 270 km.
Accidenti che strada.
Semi deserta, asfalto di ottima qualità e panorami mozzafiato.
Si viaggia su una scogliera alta dai trenta ai cento metri che a volte strapiomba sul mare a volte invece digrada diventando una spiaggia o lunghissimo lembo di terra.
A volte sulla nostra destra compare subito la spiaggia, con onde oceaniche che si rifrangono con regolarità. Il sole e’ caldo ma la temperatura per noi motociclisti e’ bassa.
Maglione, Belstaff e gilè con i colori dei Threepercenters sono sufficienti per una buona protezione dal fresco serale, quando la temperatura scende attorno ai 13 gradi. Sembra di essere in Bretagna o in Inghilterra, poi all’improvviso in Baha-California. Una strada che vale da sola il viaggio. Finalmente Essauira, dove ci fermiamo per una grigliata di pesce sul porto. Atmosfera coloniale e decadente per un posto che e’ difficile dimenticare. Per 15 euro a testa mangiamo uno scorfano da un chilo con gamberoni spettacolari.
Ma e già il momento di ripartire. Altri 350 km per Agadir, Tizint e Ifni, dove finalmente ci fermiamo. La cittadina e’ un antico capoluogo spagnolo ed una attivo porto di pesca. Ha anche un aeroporto abbandonato, come anche un bellissimo edificio dell’antica ambasciata spagnola. Scoviamo un piacevole ristorantino ed eccoci davanti ad una seconda memorabile grigliata di pesce. Conosciamo un po’ di gente, chiacchieriamo, Ifni ci accoglie tranquilla e noi siamo troppo stanchi per pretendere altro. Domani sarà una dura giornata…

13 marzo, martedi,

Ifni (Marocco) – Boudjour (Sahara Occidentale) (680 km)
Piano piano si sente che la civilta’ ci abbandona.
Lasciamo Ifni, arroccata tra le sue montagne a strapiombo sul mare e scendiamo su di una pianura calda e assolata.
Guelmin, Tan Tan, Tarfaya, le cittadine filano via mentre attorno a noi si spalancano le porte del deserto. Incrociamo solo pochi camion e qualche Land Rover che risalgono da Dakla o dalla Mauritania. La sensazione e’ bellissima, quando ci fermiamo e spegniamo il motore.
Il silenzio e totale, c’e'; solo il vento e in lontananza qualche schiocco e qualche rombo misterioso che mi fa pensare a qualche spirito che e’ meglio non disturbare.
Così si riparte.
La sabbia invade la strada e le lingue gialle e morbide ci fanno rallentare piu di una volta. Siamo fortunati e il forte vento tipico della zona per quest’oggi non si fa vedere.
Percorriamo centinaia di km sospesi tra due nulla: sulla destra le onde dell’oceano che arrivano dal Sud America, sulla sinistra il deserto che finisce in Egitto: diecimila km di nulla sia a est che a ovest, e noi in mezzo con il sole dritto sulla fronte per dieci ore filate al giorno. Questo e’ il nostro viaggio.
Sono pochi i protagonisti di questa terra abbandonata: i tuareg in blu che ora guidano le jeep o le toyota, i poliziotti sorridenti a cui consegniamo le fiches di passaggio, e pochi altri viaggiatori che non si sa bene cosa vadano cercando; un po’ come noi due.
Cammelli che vagano per il deserto, spiagge interminabili con qualche turista in camper che fa surf.
Relitti arrugginiti di vecchie navi arenate chissà quando su questa costa inospitale e battuta dal vento. Penso a tempeste e a storie di uomini, di coraggio e di natura ribelle. Quello che rimane e’ li di fronte a noi: un vecchio relitto rugginoso che si staglia sul mare verde e freddo del Sahara Occidentale.
La moto non perde un colpo. Questa mattina ho stretto un paio di viti del carter che perdeva leggermente ma stasera il problema pare risolto.
Il maledetto fanalino posteriore si e di nuovo bruciato ma conto di non viaggiare più di notte. Il carburatore risente dei repentini cambiamenti di temperatura e tossisce sui 110 km h: nulla di nuovo per la mia bambina.
Da oggi fino in Senegal la benzina sara’ solo rossa: e saremo fortunati quando la troveremo….

14 marzo, mercoledi, (Sahara Occidentale)
Boudjour-El Dakmar (ultimo luogo abitato prima del confine con la Mauritania) (530 km)
Oggi la protagonista e’ stata la mia moto.
Il programma e’ partire da Boudjour e dopo 500 km di Sahara Occidentale, portarci a ridosso del confine con la Mauritania. E’ l’unica strada che esiste in questo stato, sotto l’amministrazione del Marocco ma talvolta in agitazione per sostenere la propria indipendenza.
Il fronte Polisario infatti ogni tanto si fa sentire e ha lasciato come conseguenza, una regione piena di posti di blocco e di campi minati (ben poco segnalati…).
Noi abbiamo preparato le fiches da consegnare ai poliziotti (fogli che riportano le nostre generalità;) e ci godiamo un lunghissimo trasferimento nel deserto. Ma ad un tratto il rumore della moto cambia.
Si e’ spaccato un collettore e mi sto tirando dietro la marmitta a strascico.
Cazzo, cazzo, cazzo.
Vediamo che il danno può essere rimediato con del filo di ferro che abbiamo portato con noi e i resti di una vecchia lattina trovata ai margini della strada.
Proseguiamo con prudenza mentre la moto ha il rombo di un Caballero 125 truccato col 19 e la marmitta Pinasco ad espansione.
Ci fermiamo a mangiare esattamente sul Tropico del Cancro, al quale dedichiamo il montone alla griglia con mosche comprese, che degustiamo ad un baracchino ai lati della strada: l’autogrill locale.
E si continua cosi, chilometro dopo chilometro per ore e ore.
Il paesaggio e’ monotono ma affascinante, le spiagge infinite, anche se ogni tanto i cartelli Danger Mines, ci ricordano di non abbandonare la pista.
Un tuareg con l’immancabile vecchia land rover si offre di aiutarmi, regalandomi del filo di ferro più forte e fissando la marmitta ancor piu saldamente.
Parla spagnolo e non francese: come orgogliosamente specifica
“qui era terra di Spagna, i francesi non c’entrano”.
E’ stato gentile e prezioso, vorrei dimostrargli la mia gratitudine con una mancia, ma lui rifiuta “sono felice di aiutare, tu l’avresti fatto con me. E’ cosi che si fa in Sahara” e rimonta sulla sua land rover tutta gibollata ma efficiente e generosa.
Proprio come lui.
Possiamo riprendere ma nonostante la pezza, la mia moto risente del danno e le vibrazioni accentuate mi fanno perdere uno dei dadi dei prigionieri che tengono fissato il collettore al cilindro anteriore: e questo e’ un problema vero.
Con la moto tenuta insieme con il fil di ferro, arriviamo a circa 70 km dalla frontiera a El Dakmar, tappa obbligata per Tuareg, camionisti, fuoristradisti e motociclisti prima del salto in Mauritania.
Osservo sconsolato il collettore quando sopraggiunge un ciclista francese che sta facendo da Tangeri al Niger in bici e tenda.
Si ferma un attimo, dopo avermi educatamente salutato e gli spiego il problema.
Mentre sto meditando quale altro bullone svitare per prenderne il dado ed usarlo per fissare il maledetto prigioniero, il ciclista Alex (che scopro essere stato mandato dal cielo) con un gran sorriso mi fa segno di aspettare e fruga sotto la sella della sua bici.
Incredibilmente estrae un paio di dadi che, con qualche sforzo, possono essere sistemati nel prigioniero.
Stringo piano piano e nonostante il dato non arrivi in fondo, con un distanziale (vecchio dado trovato per terra, riesco a fissare il collettore!
E fatta: sono salvo!
Chi l’avrebbe mai detto, una Harley salvata da una bici.
Alex e’ nostro ospite a cena, come minimo!
Al El Diakmar trovo anche un saldatore che mi sistema i collettori e mette un bel rinforzo.
L’operazione si svolge in un antro buio, quando fuori ¨¨ gia tramontato da un po’.
Manca la luce, mancano anche gli attrezzi, ma il saldatore (del 1950) c’¨¨, e per le chiavi, le ho tutte io, complete di boccole e brugole (come Mario ben sa…).
In un paio d’ore abbiamo risolto e il più e’ fatto: posso godermi la cena con Andrea e Alex.
Proprio mentre stiamo mangiando giunge scortato dalla polizia un carro attrezzi che porta un fuoristrada francese completamente distrutto: sono usciti di strada e sono saltati su una mina.
Salvi per miracolo. Quando si dice, occhio ai cartelli….
Domani ci aspetta un altro campo minato veramente bastardo: quello nella terra di nessuno tra Sahara occidentale e Mauritania.
I doganieri mauri lo chiamano Kandahar…


Ecco il punto (più o meno) esatto dove passa il Tropico del Cancro: indifferenza totale degli abitanti sul fatto che il tropico passasse di lì…

15 marzo, ore 3 di notte,
El Dakmar, sul confine con la Mauritania, nel deserto.
Il mio stomaco si e’ un po’ stufato di pollo e tagine, così mi giro nel letto della nostra modesta camera di questo eccezionale luogo che e’ El Dakmar. Sudo copiosamente e il sudore mi si gela immediatamente sulla pelle. La mia maledetta testa mi porta a pensare alle cose peggiori. Dove cavolo sono? Nel posto più inaccessibile del mondo (e non scherzo), centinaia di chilometri di niente per arrivare alla prima misera cittadina di pescatori dove non c’è ne medico ne ospedale ne aerei: nulla.
Non sono tranquillo, mi sembra di non stare bene e immediatamente penso al peggio: sarà certamente il taglio che mi sono procurato oggi col cacciavite, mentre cercavo di riparare il maledetto collettore.
Lo immagino infettarsi, portare febbre alta, degenerare in setticemia o provocare convulsioni. Mi immagino bloccato qui, o peggio in mezzo al deserto mentre sto tentando di raggiungere un aiuto. Penso al tetano (della cui vaccinazione non ho fatto il richiamo…) che mi porterebbe a morte certa anche se fossi a Milano, figuriamoci in Mauritania…
Insomma, incubi, pensieri, paure.
Un momento di sconforto
Cerco di calmarmi, ma non è facile.
Inizio allora a pensare che e’ lo stomaco la vera causa; la gastrite nasconde mali dal nome impronunciabile, subdoli e incurabili.
Questo penso, qui a El Dakmar alle tre di notte.
Mi alzo nel buio pesto della stanza ed esco sullo spiazzo grande che dà sul deserto.
Mi appoggio ad uno dei pali che reggono la grande tenda sotto cui si cena ed osservo un cielo pieno di stelle; alcune le riconosco, altre si possono vedere solo qui a sud del tropico.
L’aria e’ fresca e secca, il silenzio e totale.
Il generatore di corrente è spento e si sentono gli schiocchi delle pietre ed altri lievi rombi lontani.
Echi misteriosi del deserto a cui le nostre orecchie non sono abituate.
Penso agli uomini che il destino stasera ha portato qui: meccanici senza attrezzi, camionisti, faccendieri, un ciclista pazzo, due francesi saltati su una mina e vivi per miracolo, e noi due con le nostre moto.
Penso che la vita è una cosa stupenda e che essere qui, in fondo è un privilegio raro.
Qui davanti alle immensità dell’universo: un firmamento meraviglioso, un deserto che pare infinito che va ad intingersi nell’Atlantico.
Poco a poco tutto mi sembra passare, mortificato e reso insignificante di fronte alla maestosità della notte e alla dignità degli uomini che qui vivono, e che lottano con una natura selvaggia e che non perdona.
Una stella cadente taglia l’oscurità della notte.
Mi verrebbe da esprimere un desiderio ma qui, tra gente per la quale il desiderio principale è riuscire a togliersi la fame, quasi mi vergogno un po’.
Penso a Giovanna, a Pietro e Vittorio, alla piccola Fiammetta, e invece di desiderare qualcosa – come sempre noi uomini siamo abituati a fare in questa strana vita – preferisco dedicare questa stella a loro, alla mia famiglia, ai miei cari, ai miei amici; e che la loro esistenza possa brillare come questa stellina nella profondissima luce del deserto del Sahara.

Dogana tra Sahara Occidentale e Mauritania

Inizio del tratto di “terra di nessuno”. 5 km di niente; piste maldefinite e subdole, con campo minato tutto attorno.
Bisogna tenere la sinistra su tutte le biforcazioni, altrimenti ci si insabbia

Il nostro amico Alex, che incredibilmente scoverà tra i suoi attrezzi, un dado che va bene per il prigioniero del mio collettore.

Qui sotto, l’auto dei francesi saltati su una mina; erano usciti di strada contravvenendo ai rari cartelli come quello qui sopra.
Salvi per miracolo.

15 marzo 2007, giovedi,
El Dakmar-Nuakchott, Mauritania (550 km)
Il giorno dei deserti e dei passaggi.
Ci svegliamo all’alba e il mio primo pensiero e’ correre a ricontrollare il lavoro fatto ieri notte con i saldatori.
Non era un sogno, il collettore e’ li, saldato e rafforzato debitamente da una placca di ferro. L’umidità della notte ha ricoperto la moto e il colore dell’alba e’ un rosa lievissimo.
Il sole si alza da est levandosi da altri deserti lontani migliaia di chilometri da noi. Il piccolo luogo di sosta si sveglia lentamente ed una piccola coda si crea davanti alla pompa di carburante.
Nessuno fa benzina perchè dal Marocco in giu’, girano solo mezzi a gasolio.
Ci aspettano quasi 600 km di cui non abbiamo informazioni sul rifornimento. Sappiamo che non incontreremo ne citta’ ne paesi fino a Nuakchott, la capitale della Mauritania.
E sappiamo anche che gli unici due distributori vendono essenzialmente gasolio.
Sia io che il Mentone ci siamo organizzati: lui ha deciso di portare una tanichetta da 5 litri più alcune bottiglie da un litro e mezzo. Io ho due taniche flosce da otto litri l’una che penso di sistemare in due sacche da paracadute ai lati della ruota posteriore.
Con questo supplemento di carburante arrivo ad un totale di 35 litri che sono la bellezza di 700 km di autonomia per il mio RK. Sono tranquillo ma ho il dubbio che il maggior peso, sistemato a cavallo del parafango posteriore, mi crei problemi nel tratto di terra di nessuno, dove non c’è la strada.
Allora decido di inserire le taniche direttamente nella valigia a tubo, legando sul manubrio abiti e attrezzatura leggera.
E così partiamo.
In breve voliamo i 75 km che ci separano dalla dogana.
Alle nove la dogana apre e siamo tra i primi. Nessun problema di documenti e ci viene aperta la sbarra sulla terra di nessuno; 5 km di nulla dove, in un dedalo di piste e stradine, bisogna scegliere la migliore per non insabbiarci o saltare su qualche mina, e arrivare indenni in Mauritania.
Oltrepassiamo le torrette e con il sole in fronte ingraniamo la prima. Dietro di noi la sbarra si chiude mentre si infila anche un camper di un timoroso pensionato francese con la moglie.
All’inizio la strada è abbastanza chiara, ma dopo un paio di km le biforcazioni aumentano e temiamo di averne sbagliata qualcuna. In effetti ci insabbiamo e faticosamente ritorniamo sui nostri passi. Ricordiamo indicazioni che dicono che bisogna sempre tenere la sinistra e così facciamo, costeggiando un paio di allucinanti cimiteri di auto dove riposano (per sempre) mercedes e peugeot scassate e senza targa.
Ci hanno detto che in questi 5 km avvengono se cose più strane, auto che arrivano con una targa ed escono con un’altra, mezzi che escono da un confine e NON rientrano più dall’altro, camion che escono da uno stato carichi, e entrano nell’altro completamente vuoti. Gente che vi si aggira di notte e che conclude affari loschi, altri che finiscono anche per saltare su qualche vecchia mina
Lungo il tratto di terra di nessuno si vedono carcasse di auto e ogni tanto si distingue la vecchia strada costruita dagli spagnoli, quando il Sahara Occidentale era una loro colonia. Lasciamo indietro il camper e proseguiamo con cautela: rifletto sulla cazzata mondiale che sto facendo:
sono in uno dei deserti più vasti del mondo, in un tratto dove la pista non e’ segnata e il rischio di insabbiarsi e’ discretamente alto, la zona e’ minata e per concludere ho due taniche di benzina da otto litri l’una chiuse nel bagaglio sul parafango posteriore. Il sole e’ gia’ alto nel cielo e la temperatura torrida mi fa subito pensare all’autocombustione della benza.
Praticamente il mio Road King e’ esso stesso una mina vagante.
E ieri notte mi lamentavo del taglio sulla mano…. sorrido e tiro dritto senza pensarci troppo.
Ad un certo punto non incrociamo più nessuno e si fa forte il dubbio che stiamo cannando strada, decidiamo di ritornare indietro all’ultimo bivio.
Dopo un paio di curve individuiamo finalmente un paio di Land Rover che arrivano dalla parte della Mauritania. Ci avviamo verso di loro e, alzandoci in piedi sulle pedane riusciamo finalmente a scorgere le baracche della polizia della Mauritania.
E anche questa e’ fatta.
Le pratiche si sbrigano in tre tuguri di legno e cartone, che immagino come possono essere quando il sole picchia davvero.
Ce la caviamo con un paio di cadeaux da 5 euro e siamo liberi di correre verso le immensità della Mauritania.
Fino a due anni fa la strada qui girava per Nuadibou (a una quarantina di km) e se volevi proseguire verso sud erano cavoli tuoi. Da poco più di un anno invece, Nuakchott è collegata con una comoda strada asfaltata.
Incrociamo il treno dei fosfati, un interminabile animale sbuffante e rumoroso che collega l’Atlantico con le miniere di Choum e che trasporta anche uomini, auto, animali e ogni genere di merci.
Mentre immagino che questo treno passa una volta ogni tre/quattro giorni, incredibilmente questo arriva !(ci fossero stati il Depia e Mario, avrebbero riso, e loro sanno perchè)
Ma 470 km di vuoto pneumatico nel deserto mauro ci attendono prima del primo centro abitato degno di questo nome, che e’ Nuakchott, la capitale della mauritania.
Centinaia e centinaia di chilometri di deserto morbido e setoso dai colori più rosati e gialli rispetto a quello del Sahara Occidentale che e’ la hammada, il deserto di sassi, piu’ duro e ostico.
La strada e’ nuova e l’asfalto davvero eccellente, liscio e molto piu’ scorrevole di quello a grana grossa a cui ci eravamo dovuti abituare nel sud del Marocco e nel Western Sahara.
Grazie a questa strada possiamo evitare di affrontare la famigerata pista Nuadibou-Nuakchott via Banc d’Arguin, che sarebbe impercorribile con le nostre Harley.
A circa cento km dal confine incontriamo un distributore che incredibilmente oltre al gasolio ha anche della benzina.
Ci fermiamo per un rabbocco e in quel momento capiamo che la nostra previdenza su taniche e bottiglie di benza era stata eccessiva ma e’ meglio cosi ed entrambi rabbocchiamo i serbatoi con la preziosa benzina che qui paghiamo ben piu’ che in Italia (1.5 euro al litro, visto che gli astuti benzinai mauri hanno sempre a che fare con gente che arriva a secco e sanno far fruttare la loro rendita di posizione…).
La moto, anche se un po’ piu’ rumorosa e rappezzata, procede piuttosto bene; la saldatura va a meraviglia ma individuo gocce di olio sotto le alette del cilindro posteriore.
Diagnostico una leggera perdita dalle guarnizioni della testa, che d’ora in avanti terro’ sotto controllo.
Il viaggio del silenzio e della meditazione continua tra l’azzurro del cielo e il giallo rosato della sabbia. Nel nulla piu assoluto incontriamo un inglese su una enduro che ha l’obiettivo di arrivare in Sud Africa tra 5 mesi e li vendere la moto.
Insieme raggiungiamo la capitale dove troviamo gente simpatica e per la prima volta anche un po’ di ragazze nere veramente carine, cosa di cui da qualche giorno avevamo dimenticato l’esistenza.
Capitale di stato, anche se piccola, Nuakchott ha il taglio tipico delle città dell’Africa subsahariana; vecchie mercedes anni 80 e peugeot scassate e strombazzanti, pullman di mezzo secolo fa che scaricano gas e olio come arrugginite macchine infernali, caldo e smog, rumore e polvere, gente indaffarata a cercare chissa’ quale modo di tirare avanti.
In breve ci siamo persi nel dedalo delle vie della città. Decidiamo di raggiungere la zona del Novotel dove cercheremo un albergo.
Fermo uno studente e gli chiedo indicazioni. Il ragazzo, vestito modestamente ma con una certa cura, si offre di accompagnarci lui, se lo facciamo salire in moto. In breve ho sul parafango posteriore questo passeggero leggero ed entusiasta che si tiene saldamente e mi grida all’orecchio che siamo i benvenuti nel suo paese.
Dieci curve dopo siamo di fronte al modernissimo Novotel, che scarteremo a favore di uno piu’ tipico e semplice.
Dopo una bella doccia, siamo a cena al ristorante El Badja, nella zona delle ambasciate, davanti a un paio di birre e un pesce alla griglia, con due bellissime cameriere con culi che sfidano ogni legge anatomica e gravitazionale.
Funzionari di consolato e progetti ONU siedono ai tavoli vicini a noi: a pensarci bene, sono loro i nuovi coloni, i pigri e spesso inutili e costosi privilegiati dell’africa.
Ci salutano con un cenno, accomunati a noi dal colore della pelle.
Ma all’improvviso quella birra e quel cibo ottimo e abbondante, fa un po’ fatica ad andare giu’…

Il treno dei fosfati: il più lungo del mondo, con tre motrici davanti e tre dietro. In mezzo una quantità di vagoni, mai contati.

Un autogrill mauro, con zona ricambi e accessori…

Cartello stradale mauro: 300 Km a Nuakcott, e chi capisce, capisce….

16 marzo, venerdi,
Nuakchott (Mauritania)-Saint Louis, (Senegal) (340 km di cui 100 km in fuori strada)
Abbiamo lasciato il caos di Nuakchott verso le nove e dopo un ultimo tratto di 250 km di deserto, che lentamente cambia e prende le fattezze della savana, arriviamo al confine meridionale della Mauritania.
Qui l’unica strada esistente si ferma a Rosso, una brutta cittadina sul fiume Senegal, dove nessuno ha finora pensato di costruire un ponte.
Rosso è una citta la cui antica importanza era legata a un’economia post coloniale che ora non esiste piu e l’unica fonte di guadagno sembra essere lo sfruttamento degli sventurati viaggiatori che devono varcare la frontiera attraverso la famigerata dogana e imbarcarsi sull’unico famigerato traghetto che ogni mezzoretta attraversa in fiume prelevando i viaggiatori spennati dai doganieri mauri e scaricandoli nel secondo girone infernale, la dogana senegalese.
Ci basta vedere in lontananza il cancello della zona di dogana, di fronte al quale si assiepa una moltitudine di questuanti e seccatori, per rabbrividire al pensiero.
Mentre frotte di presunti assistenti e imbroglioni gia’ attorniano le nostre moto, urlando tutti insieme e sventolando carte e fotocopie, noi cerchiamo solo una drogheria per un veloce spuntino a base di pane e sardine.
Abbiamo infatti un’alternativa alle forche caudine di Rosso: la pista per Diama, una dogana secondaria che si trova dopo 97 km di pista sterrata che corre lungo l’argine del fiume Senegal.
Dopo averla studiata a lungo su report, forum e anche sulle foto satellitari, ho concluso che si dovrebbe poter fare senza perdersi.
La pista infatti e’ relativamente facile (nulla in confronto alla pipeline in Tunisia verso Ksar Ghilane) e in questa stagione il rischio di impantanarsi è molto basso.
La imbocchiamo trovandola sulla destra di un distributore della Total in una strada che trabocca di spazzatura e bambini urlanti, ma dopo mezzo chilometro ecco l’argine.
Lasciata la polvere e le seccature di Rosso, la florida natura fluviale, con uccelli e piante tropicali, ci attornia e ci affascina. Qui davvero si ha la sensazione di uscire dal deserto e di entrare nell’Africa nera.
La pista si rivela essere davvero una buona scelta che ci consente di immergersi e godere di una natura incontaminata e unica. E’ tuttavia molto facile impantanarsi e ci rendiamo conto che, nonostante la stagione secca, ci sono parecchie pozzanghere e il fondo e’ infido.
Immaginiamo che maggio sia forse il limite per percorrerla con una moto come la nostra.
Scegliamo con cura le traiettorie, alternando tra la pista sull’argine e quella sotto. La migliore si rivela essere quella che corre a nord dell’argine.
A volte veniamo tratti in inganno dai miraggi che materializzano immagini di lunghe pozze d’acqua sulla pista, che all’ultimo scompaiono dopo averci costretto a cambiare strada.
E’ davvero una sensazione di totale dipendenza dalla natura, di fronte alla quale, anche in virtu’ del possente fiume a pochi metri da noi, ci sentiamo piccoli e fragili. Anche la fauna e’ davvero sbalorditiva: in un tratto piuttosto facile, dove il mio RK tocca quasi i 60 km ora, un grosso facocero mi taglia la strada sbucando dal fogliame e rischio di cadere; poi piu’ volte dobbiamo cedere il passo a gruppi di cammelli e a mandrie di impassibili buoi dalle lunghe corna.
In lontananza enormi avvoltoi stanno banchettando sul cadavere di una bestia imprecisata.
E’ venerdì pomeriggio e a Milano c’e’ gente in via Torino davanti alle vetrine, o in banca mentre batte sulla tastiera del computer.
Noi invece siamo qua.
Ogni tanto una chiusa regola il flusso di irrigazione dal fiume ai campi. I guardiani stanno facendo il bagno nelle acque fresche del canale e ci guardano passare: non so chi e’ più invidioso tra noi, accaldati e stanchi, e loro che vedono due bellissime moto scivolare sulla terra battuta rossa e compatta.
A circa meta’ strada facciamo amicizia con tre giovanissimi ragazzi olandesi molto freak-anni 70, con dreadlocks e Diane 2 cavalli di ordinanza, modello furgonato e verniciato con fiorellini che fanno ridere e ispirano tenerezza anche alle guardie maure.
Li ritroveremo a St Louis presso un affittacamere; la vecchia 2 cavalli ce l’ha fatta anche lei…
Finalmente impolverati e dopo un paio di cadute, arriviamo alla dogana di Diama.
Tutto si svolge rapidamente con balzello medio di 7 euro a ufficio. Accettabile, per essere nel conclamato regno della corruzione.
Tutto sarebbe perfetto quando proprio mentre siamo nella terra di nessuno, la mia vecchia moto ha un mancamento e la batteria muore.
Per fortuna ho con me i cavi e mi attacco alla batteria di un camion di pompieri spagnoli volontari che transitano verso nord dopo aver lavorato ad un progetto di beneficenza in Senegal.
La moto riparte subito ma sono un po’ preoccupato fino a che non escludo ogni possibile danno al regolatore grazie alla verifica con il tester che ho con me e che mi conferma che la tensione alla batteria in moto e’ di 14,7 volts (per altro un ingombrantissimo regolatore l’avevo portato ma sarebbe stato seccante doverlo cambiare su una diga nella terra di nessuno tra Mauritania e Senegal…).
Con la moto perennemente accesa facciamo rapidamente dogana per il Senegal e via verso St Louis.
Come da copione, sulla strada veniamo immediatamente multati perchè non abbiamo lo specchietto retrovisore destro (!!!?) e dobbiamo assoggettarci ad una spudorata bustarella di 10 euro per liberarci dal molesto poliziotto che, come altri ci avevano detto, e’ una caratteristica tipica di questo tratto di strada.
Mentre ci passano accanto auto prive delle intere portiere, con parabrezza spaccato e riparato con nastro adesivo e senza luci ne anteriori ne posteriori, riprendiamo la strada per St Louis meditando sul gramo destino di essere bianchi, per lo meno qui, nient’altro che ambite prede della gendarmeria…
La cittadina, sorta su due isole alla foce del fiume Senegal, era la vecchia capitale del Senegal coloniale francese e la stupenda architettura delle maison a balcon e dei palazzotti art deco, ne sono le testimonianze piu pregevoli.
Ci fermiamo all’Hotel De La Poste, un gioiello anni 30, da meno di 50 euro la doppia, dedicato ai voli postali Dakar-Parigi inizio secolo, effettuati spesso in idrovolante, che qui si fermavano a fare scalo. La padrona dell’Hotel ci offre da bere e ci sentiamo come Antoine de Saint-Exupery, appena ammarato dopo un faticoso trasferimento sui cieli della Mauritania.
Ci lasciamo trasportare poco a poco dalla tranquilla decadenza di questo luogo di malaria, di funzionari pigri e corrotti e di pescatori, ma forse anche di viaggiatori, di cui noi oggi vorremmo essere gli emuli.
Il Senegal, grande fiume che viene dal Mali, qui sfocia nell’atlantico e mescola le sue acque dolci nell’oceano cui conferisce un odore che ricorda la laguna di Venezia. C’è già un po’ di tristezza, al pensiero che domani sarò a Dakar e che il viaggio volge ormai al termine.
Nelle mie peregrinazioni nella cittadina, un vecchio sarto accetta di confezionarmi una bandiera del Senegal e una della Mauritania. Qui tutto si può fare e con una stretta di mano concludiamo l’ affare.
L’indomani troverò due bellissimi manufatti unici e ben cuciti, che finiranno sul camino del mio studio insieme a tante altre bandiere e mi ricorderanno questi colori, rosso giallo e verde, così rappresentativi dell’Africa.

Il grande fiume Senegal

Sull’argine del fiume … fango in agguato…


Qui sotto, la dogana di Diama: pochi secondi dopo, moriva la mia batteria, dopo aver portato a termine la sua corsa su 100 km di sterrato… come il maratoneta delle termopili…

17 marzo, sabato,
Saint Louis-Dakar, (Senegal) (266 km)
Saint Luis rappresenta esattamente quello che immaginavo come modello di citta’ coloniale, e non vorrei lasciarla subito al mattino presto, come abbiamo fatto per le altre. Cosi’ ci regaliamo ancora una mattina di relax.
Mentre Andrea va a correre lungo le due isole, io per caso conosco Babacar, un giovane pescatore che mi conduce attraverso i quartieri poveri dei pescatori e mi mostra una St Louis fatta di misere baracche sulla spiaggia, ma anche di allegria, colori e gare di piroghe, alcune lunghe fino a 20 metri.
Gli chiedo della malaria, qui veramente endemica e pericolosa. Mi dice che tutti l’hanno fatta, lui compreso, e che in fondo fa parte della vita, ma che e’ veramente pericolosa solo per bambini e donne incinte.
Mi parla della dura vita dei pescatori come lui, e dice che la dorade e I branzini ora sono tutti emigrati verso la Mauritania e che quindi il pesce pregiato scarseggia. Si pescano solo squali, razze e pesce gatto, che rendono poco.
Bisognerà aspettare maggio per il ritorno del pesce di pregio, oppure rischiare la vita sui flutti dell’atlantico e stare in mare per dieci giorni per pescare qualcosa che al mercato possa fruttare qualche CFA in piu’. Ma e’ la loro vita e tutto sembra essere preso con tranquillo fatalismo.
E’ ora di andare (frotte di ragazzini mi fanno partire a spinta tra urla di giubilo quando ingrano la terza e il RK parte) e dopo aver rischiato ancora una multa assurda (questa volta per non avere acceso le quattro frecce in sosta…) dopo un paio d’ore siamo a Dakar.
La savana con i baobab e l’erba secca in attesa della prossima stagione delle piogge, fa da cornice ad una lunga strada che attraversa villaggi tipici dell’Africa nera con capanne con tetti fatti con le frasche e fango, e qualche scimmietta ci osserva dai rami dei grossi alberi frondosi che segnano il centro dei villaggi, sotto i quali la gente si trova per parlare, contrattare e decidere le cose di ogni giorno.
Ma Dakar e’ ormai prossima e come tutte le metropoli del terzo mondo, l’impatto e’ scioccante e l’insieme di fumo traffico povertà e rumore ci fa pensare che il progresso e’ davvero una bestia a due facce, difficile da governare in questi paesi.
Ma il mio cuore e’ combattuto tra la tristezza della fine del viaggio e la gioia de prossimo incontro con Giovanna e i bambini che mi aspettano a Dakar per qualche giorno di vacanza insieme.
Il nostro arrivo nell’atmosfera un po’ rarefatta del villaggio vacanze, tutti impolverati e sporchi e con le moto tenute insieme col fil di ferro, mi fa pensare ai due modi opposti di vivere un luogo ed una vacanza ma all’improvviso mi ritrovo ad abbracciare Pietro e Vittorio, che sono corsi attraverso il parco sorridendo e urlando la loro gioia …
…. ma in fondo questa e’ un’altra storia.

Epilogo

Resto a Dakar ancora per una settimana, e che cavolo: questo paese me lo sono guadagnato dopo dopo quasi 5000 km di asfalto e piste.
Con Giovanna e i bambini mi godrò a fondo questa città strana e incasinata ma prima di tutto bisogna spedire le moto.
Ancora una volta dovrò arrangiarmi da solo, con l’aiuto prezioso di Paco, un ragazzo di Dakar contattato dall’Italia.
La spedizione in se non e’ una faccenda complicata ma il coordinamento di ogni cosa puo’ facilmente renderla un incubo.
Premetto che in queste zone quando si ha a che fare con dogane, uffici pubblici e burocrazia, un “local” che parla la loro lingua (il francese spesso non e’ sufficiente) e conosce le persone e i processi di velocizzazione e lubrificazione, e’ fondamentale.
La domenica sera porto le moto all’Hotel Lagoon, vicino al porto, dove i guardiani amici di Paco, vigileranno per una notte sulle moorette (a parte che vorrei vedere il ladro che riesce a far partire la mia, che tra l’altro non si presenta neppure al massimo della sua forma estetica, con fili di ferro arrugginiti che la tengono insieme e completamente ricoperta da una patina di sabbia rossa mischiata a trafile d’olio).
Con l’equivalente di 5 euro ci garantiamo la sicurezza di un doppio turno di guardia: due euro subito e tre domani mattina alla consegna.
E sono soldi, ragazzi: siamo a Dakar.
Il mattino dopo, alle dieci in punto, io e Paco siamo operativi.
Prima ci presentiamo alla societa’ di spedizione, la “Messina”. Nel frattempo dall’Italia, io avevo già parlato con il signor Corte, il responsabile per il Senegal, genovese motociclista che ci da una spiegazione dell’intero processo di spedizione e molto gentilmente si offre di aiutarci nel caso ci incasinassimo.
Li’ concordiamo il container che trasportera’ le nostre moto in Italia.
Si tratta di un container di quelli piccoli, che pero’ ha spazio sufficiente per almeno cinque o sei moto come le nostre.
Partira’ semivuoto e lo pagheremo tutto noi, ma alternative valide non ce n’erano e buono a sapersi per la prossima volta.
La fantomatica spedizione “groupage”, infatt, quella che prevede la sistemazione della moto in una cassa che viene raggruppata con altra merce che va alla stessa destinazione, costa forse un po’ meno e comunque da Dakar i groupage sono lunghissimi da organizzare, ed e’ difficile trovare merci per riempire un intero container da mandare a Genova.
Ci avviamo ora verso l’ufficio dell’amministrazione del porto a cui si accede tramite una porticina angusta.
Nello squallido ufficio c’e’ una coda pazzesca e la sala d’aspetto ricorda il corridoio di una caserma in disarmo. Vedo una fila interminabile di neri con un numerino in mano e ognuno un bel po’ di documenti da far sbrigare.
Per darvi un’idea sembra un insieme diabolico della Motorizzazione civile, l’anagrafe e il peggiore ufficio postale italiani.
Il tutto in lingua franco-senegalese, e a circa 30 gradi di temperatura.
L’ultimo omino in coda, impassibile e rassegnato come gli altri, ha il numero 60…
Gli africani sono diversi sia dagli occidentali che anche dagli asiatici; accettano le lunghe attese con maggiore dignita’ e con fatalismo kafkiano.
Gli indiani penserebbero che oggi doveva andare cosi’, i marocchini e i libanesi troverebbero delle soluzioni alternative parlando e convincendo i funzionari, gli arabi pagherebbero qualcuno per fare la coda per loro, noi italiani cercheremmo di passare davanti a tutti con qualche bieco stratagemma.
L’idea di farmi la coda non mi entusiasma, anche se ho stanziato la giornata per quello, ma Paco e’ sicuro di se.
Prima dell’ingresso negli uffici si e’ fatto dare 40 Euro in CFA locali e mi ha detto che basteranno per tutto. Il nostro amico si infila nell’ufficio mentre tutti gli africani lo guardano impassibili ed in effetti in breve otteniamo i lasciapassare per entrare nella zona container, oltre il cancello del porto.
Mi vergogno un po’ ma Paco mi tranquillizza minimizzando sul fatto che noi non avremmo comunque dovuto fare alcuna coda….
Ho dei dubbi ma spudoratamente accetto questa spiegazione all’italiana e procedo al prossimo step.
A questo punto torniamo al Lagoon e in due volte porto le moto dentro il porto; il Dyna di Andrea per prima, poi la mia (che per fortuna riesco a far partire grazie ad una comoda discesa davanti all’Hotel che mi evita la solita sceneggiata della spinta corale con tutti i ragazzi neri che urlano e poi applaudono quando ingrano la seconda e la moto parte).
Qui mentre un gruppo di inservienti fissa le moto nel container, con robuste funi in fibra sintetica e sotto la mia attenta supervisione (5 eur. di mancia da dividere in quattro; ovazione…) Paco mi dice che adesso e’ giunto il momento delicatissimo di parlamentare con i due funzionari della dogana interna del porto.
I due ufficiali sembrano il gatto e la volpe, appostati con sorrisi sornioni in un ufficio che e’ ovviamente ricavato da un vecchio container arredato con brandina d’ordinanza, scrivania e un paio di seggiole.
Non essendomi stato chiesto il Carnet de Passage alla dogana di Diama, la faccenda e’ piu’ semplice.
Infatti quando siamo entrati in Senegal ci hanno fatto solo il Pass Avant, un documento da esibire ad ogni controllo di polizia e che bisogna restituire all’uscita dal paese e che consente la circolazione per un determinato periodo di tempo.
La legge di importazione di veicoli in Senegal sarebbe un po’ diversa: per auto (e moto) piu’ vecchie di 5 anni ci vuole il Carnet de Passage che, se non correttamente compilato all’ingresso e debitamente scaricato all’uscita dal paese, rischia di esporre il malcapitato proprietario del mezzo all’escussione di una fideiussione pari al valore del mezzo nuovo!
Vista la burocrazia senegalese, sono stato ben felice di non vedermi chiesto il Carnet (che comunque avevo con me, pronto per ogni evenienza).
Cosi’, forse grazie al fatto che viene esaminata prima la moto di Andrea che ha meno di 5 anni, anche la mia (che ne ha 9) riceve lo stesso trattamento.
In realta’ alla dogana incontriamo una coppia di ragazzi belga che sono rimasti bloccati per un paio di settimane per non avere dotato la loro vecchia auto del Carnet, che finalmente hanno ricevuto via posta da casa.
Non si scherza con questo documento, anche se credo che con un certo tatto e un po’ di Euro, si possa trovare quasi sempre la soluzione.
E infatti Paco se ne esce con una richiesta di 10 Euro supplementari (che gli diamo anche se stavolta i nostri documenti di esportazione sono a dir poco perfetti).
E’ il momento della piombatura del container e di un’ultima visita all’ufficio della Messina per dare gli ultimi dati e ricevere copia della Bill of Lading (documento di spedizione, che prevede tra l’altro il pagamento a Genova).
Finalmente l’operazione e’ terminata: ha richiesto circa tre ore per le quali Paco si becchera’ altri 20 euro di meritata mancia oltre ai 10 di ieri e, penso, anche qualcosa che gli inviera’ dall’Italia il nostro consulente di viaggio. Ma sono i soldi meglio spesi: la faccenda e’ sempre complessa e ogni volta diversa anche se si ha l’impressione di conoscere la procedura o magari di averla gia’ fatta. Abituati a Shengen e alle soluzioni via internet e carta di credito, affrontare dogane, assicurazioni, spedizioni e visti eseguiti fisicamente da vecchi sergenti corrotti e, se va bene, lenti e inefficienti, e’ traumatico e spesso anche un momento critico che se gestito male, puo’ rovinare la giornata, o magari anche il viaggio.
Personalmente adotto un atteggiamento molto italiano, fatto di grandi sorrisi e di conversazione nella lingua che i poliziotti si aspettano, citando nomi e luoghi comuni italiani come il calcio o gli spaghetti (incredibilmente qui tutti mi parlano ancora di Roberto Baggio). Il tutto pero’, solo se immediatamente i gabellieri mi dimostrano di apprezzare la cosa e sempre tenendo le orecchie bene aperte per capire se la procedura di controllo sta andando nella direzione che vorrei io. E’ possibile che nonostante tutto, la polizia decida lo stesso di crearci problemi: quello e’ il momento di restare freddi e di insistere pacatamente con la propria versione dei fatti.
Mai incazzarsi, mai raccontare palle o manomettere i documenti.
Una buona cosa e’ decidere all’inizio quanto si e’ disposti a sborsare per chiudere il problema.
E attenersi al budget … incrociando le dita ovviamente…

ALLA PROSSIMA RAGAZZI!




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